In posizione appena defilata, all’interno della Sala Paganiniana che conclude il percorso museale di Palazzo Doria Tursi in Genova, di fronte al Guarneri “del Gesù” del 1743 il “Cannone” di Niccolò Paganini, sta la copia eseguita da Jean Baptiste Vuillaume a Pari- gi nel 1834. Nella luce soffusa della sala, questa presenza discreta e silenziosa completa la collezione delle civiche memorie paganiniane, testimoni di una bella stagione di grandi successi internazionali. A pochi passi, in una grande vetrina, fa bella mostra l’astuccio foderato in velluto rosso appartenuto a Camillo Sivori, adornato dalle meda- glie ricevute dal virtuoso genovese e completato da un bell’arco montato in oro con na- setto in tartaruga, opera di François Nicolas Voirin. Sivori acquistò la copia del “Canno- ne” di Vuillaume direttamente da Paganini nel Marzo del 1840, poco tempo prima della morte del maestro; intermediario della transazione fu l’avvocato Germi il quale, su ri- chiesta dell’amico Paganini per il quale agiva da procuratore, si premurò di versare a Vuillaume la cifra di 500 franchi, unitamente ad una lettera nella quale Paganini spiegò come si sentì “obbligato a privarmi della copia del mio violino che voi mi donaste come ricordo…ho fatto così un favore ad un amico e un piacere ad un artista”. Sivori tenne lo stru- mento per tutto il percorso della sua lunga carriera alternandolo, a quanto risulta da al- tre fonti, con due Stradivari e un Bergonzi. Il suo rapporto con lo strumento fu senza dubbio duttile e, nonostante la sua piccola statura, poco problematico: in una recensione della “Gazzetta di Milano” del 24 Aprile 1853, il recensore lo ritrae come “cantante sedu- centissimo sul suo violino che non è un Guarnerio né uno Stradivario, nemmeno uno strumento raro, ma semplicemente uno strumento francese, escito dalle mani di Vuillaume”. Che il motivo di questa sua predilezione fosse la provenienza dalla collezione del suo maestro è cosa intuibile, eppure possiamo ragionevolmente credere che Sivori avesse coltivato un suo naturale entusiasmo anche per gli strumenti a lui contemporanei. Di fatto, nella colle- zione della famiglia erede, oltre ad un violino piccolo di fattura genovese settecentesca, ancora oggi si conserva un bel violino in condizioni d’origine inalterate, costruito a Pa- rigi nel 1856 da Nicolò Bianchi.

Liutaio di formazione genovese, Bianchi rappresenta per vari motivi un caso unico nel- l’ambito della liuteria italiana ottocentesca: il suo nome risulta oggi purtroppo poco noto e così pure il suo lavoro, così poco conosciuto sebbene sia sempre contraddistinto da una tecnica eccellente e una forte personalità, espressione di una piena conoscenza del repertorio liutario classico. Poco sappiamo dei primi quarant’anni della vita di Nico- lò Bianchi: nato nel 1803 nel borgo di Albisola Superiore, situato nella riviera di ponen- te, dovette ricevere una buona formazione da violinista se, come ricorda egli stesso in una lettera del 1859 al vicario Zimiglio di Casale Monferrato, ai tempi del carnevale a Genova “non vi era nessuno che potesse suonare la sua musica, così difficile, che me soltanto, che adesso non so più fare la scala più che a riparare strumenti”. Pur soppesando il tono forse millantatorio delle sue qualità di violinista, possiamo tuttavia essere certi che il Bianchi

abbia ampliato quella lunga tradizione di liutai genovesi i quali, già dal Settecento, fu- rono principalmente musicisti di professione. A riguardo del suo apprendistato nulla è dato sapere, e tuttavia attraverso l’analisi stilistica e organologica dei suoi lavori maturi, possiamo vedere forti analogie con il lavoro di Ludovico Rastelli (liutaio attivo a Geno- va a partire dalla metà degli anni venti dell’Ottocento), con il quale condivise ad esem- pio l’uso del sottofondo e una vernice simile, e in generale un comune senso della scul- tura, che si puntualizza soprattutto nell’impostazione del ricciolo. Comunque siano an- date le cose, del liutaio Bianchi non abbiamo notizie fino agli anni Quaranta allorché, lasciata Genova, inizia una lunga peregrinazione attraverso la Francia, cercando oppor- tunità a Aix-en-Provence, Bordeaux, Montpellier, Arles, Nantes fino a giungere intorno al 1846 a Parigi, stabilendosi prima in rue de Vivienne, poi in rue Croix des Petit Champs, a pochi passi dall’elegante atelier di Jean Baptiste Vuillaume. Uomo forse di poca istruzione ma di brillante intelligenza e intuito, fu sempre animato da una forte ambizione che lo condusse ad ottenere la stima dei migliori solisti dell’epoca, quali Féli- cien David, Alfredo Piatti, Giovanni Bottesini, Antonio Bazzini e quindi Camillo Sivori. Nella Parigi del Secondo Impero il Bianchi, pur non potendo vantare le stesse risorse e l’organizzazione di Vuillaume, prova comunque a porsi quale agguerrito concorrente, dichiarandosi ultimo depositario dell’antica scuola cremonese. Nel suo appartamento- laboratorio lavora principalmente da solo, riceve i clienti, si occupa di restauro e riesce a produrre un certo numero di violini che, con alterne fortune, presenta ai concorsi del Conservatorio di Parigi. Tra i suoi clienti troviamo anche facoltosi “dilettanti” italiani, con i quali intrattiene una fitta corrispondenza, rivelatrice non solo delle sue doti di esperto di liuteria, ma anche del suo efficace lavoro nel riordinare le informazioni stori- che riguardanti la liuteria italiana: colpisce in particolare l’approccio meticoloso e siste- matico che il Bianchi ebbe nel tentare di fare ordine nelle informazioni storiche allora disponibili, nella sua continua ricerca di riferimenti bibliografici. Bianchi tentò nei suoi appunti di ordinare cronologicamente le generazioni di quei liutai italiani a cui attribui- va, con battagliero spirito patriottico e risorgimentale, la supremazia sui “galli”, sui “franchi”, sui “barbari” quindi. Questi taccuini, contenenti oltre un migliaio di minute, costituiscono un corpus unico nell’Ottocento liutario italiano e ci restituiscono un ritratto preciso e intenso della irruenta personalità del Bianchi: narrano storie a volte drammati- che ma a volte estremamente divertenti, come i suoi strali contro l’”infame Tariso” che ha portato i violini italiani all’estero, contro il “Villeomo” sempre accusato di ogni perfidia nei suoi confronti, contro “il Guadagnini e la sua combriccola”, sempre pronta a intralciare i suoi affari in Piemonte. Oltre vent’anni durò l’attività di Bianchi a Parigi: nell’ultimo periodo, trovandosi in necessità di un aiuto, fu raggiunto dal giovane Giuseppe Sca- rampella di Brescia, raccomandatogli da Antonio Bazzini, suo concittadino. Il ritorno a Genova avvenne nel 1869, a seguito del peggioramento dell’asma bronchiale di cui sof- friva e in ragione anche dell’apertura della nuova “Sala Sivori”, che avrebbe dovuto promuovere in città la musica da camera, fornendo così buone opportunità per la sua

bottega. Bianchi aprì il suo laboratorio a fianco del Teatro dell’Opera Carlo Felice, as- sunse in qualità di apprendista un giovane proveniente da una ricca famiglia di casale Monferrato, appena laureatosi ingegnere all’Università di Firenze il quale, in opposi- zione al volere del padre, voleva ad ogni costo diventare liutaio: Eugenio Praga fu così al servizio del Bianchi fino al 1878, allorché l’irrequieto maestro decise di lasciargli il la- boratorio per tentare nuova fortuna a Nizza, dove morì nel 1880, all’età di settantasei anni. Di certo il rapporto tra il giovane aristocratico apprendista e l’impulsivo e rude maestro dovette essere alquanto turbolento, e il Bianchi così lamenta che “non essendo un lavorante per tutto fare, ma invece non essendo che un signore che viene a prendere lezioni alle 10, se ne va alle 7 dopo aver cenato, e che non bisogna mai contrariarlo altrimenti non se ne po- trebbe fare nulla”. Del rapporto invece con Camillo Sivori sono rimaste solo poche tracce: nel 1859 Bianchi gli si rivolge per un’intercessione circa un violino che ha voluto donare per una raccolta fondi in favore della Guerra d’Indipendenza, la cui vendita all’incanto si era arenata; a riguardo del violino giunto fino a noi, sappiamo da una lettera dell’A- prile del 1860 che Sivori “possiede un mio violino che suonerà quando l’avrà ben lavorato”. Lo strumento fu costruito in copia dal Guarneri “del Gesù” del 1740 di Antonio Bazzini, che il Bianchi ebbe modo di conoscere e studiare direttamente, riuscendo quindi a co- glierne non solo le principali caratteristiche stilistiche, ma anche quel particolare spirito “Guarneri” per il quale sempre dimostrò intuito e abilità. Il violino, contrariamente alla tradizione italiana tanto cara al Bianchi, nacque anticato: uomo aggiornato alle novità parigine, voleva probabilmente dimostrare non solo la sua capacità liutaria ma anche la sua conoscenza della liuteria classica italiana. Lo strumento non è privo di contrasti: da un lato il Bianchi cerca nella finitura della cassa di rendere al massimo il senso dell’anti- co, perseguito ad esempio con un efficacissimo effetto di usura del legno d’abete con- sumato dal contatto con il mento, così come con la creazione della macchia nera di colo- fonia al centro delle effe, realizzata a fuoco, sua vera specialità. Nella scultura del riccio- lo invece Bianchi rinuncia non solo a riprodurre usura e consunzione, ma si stacca dal modello d’origine in favore di una sua soluzione personale: così come per Giuseppe Rocca, Nicolò Bianchi adatta il modello alla sua sensibilità, lo rende unico e facilmente riconoscibile, lo vuole testimone del suo stile, della sua propria unicità. La vernice oleo- sa che veste lo strumento risulta oggi di bellissima qualità, sia nella plasticità, sia nella ricca colorazione; fu stesa sopra un efficace sottofondo sigillante dai riflessi cangianti che ne rende mossa e luminosa la visione. All’interno giace indisturbata l’etichetta d’origine: recita “N.° Bianchi Cremonensis fecit Lutetiae 1856”, porta il monogramma cro- ciato NB inscritto in una cerchio e un’aggiunta a penna “gallicam” a ribadire sia la sua fiera (e un po’ sbruffona) italianità, che la sua provenienza da una scuola alla quale, pe- raltro, mai appartenne veramente. L’importanza del suo ruolo nell’ambito della liuteria italiana ottocentesca è tuttavia assai significativa: fu tra i primissimi liutai italiani ad af- frontare i modelli classici costruendo copie di grande qualità, fu tra i pochissimi a con- frontarsi con il mercato internazionale e con i migliori musicisti del tempo, fu maestro

di liutai determinanti allo sviluppo della liuteria italiana moderna quali Giuseppe Sca- rampella, Eugenio Praga, Riccardo Antoniazzi (probabilmente) e il nizzardo François Bovis: questi, attraverso il figlio Charles anch’egli liutaio, ebbe il merito, oltre a prose- guirne l’attività, di conservare con cura gli attrezzi, i modelli e soprattutto il carteggio che in modo determinante ha provveduto a salvarne la figura dall’oblio.

Misure:
Lunghezza del fondo: 357 mm
Lunghezza superiore: 169 mm
Lunghezza centrale: 113mm (misurata col calibro) Lunghezza inferiore: 206 mm
Diapason: 195 mm

Crediti:
Fotografie: Linea-Tre Cremona

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