Il rettifilo medievale di via della Maddalena, che si estende nel centro storico di Genova ai piedi della Strada Nuova, la via aristocratica cinquecentesca, fino circa alla chiesa di San Siro, fu intorno alla metà del settecento un quartiere attivo e popoloso abitato da artigiani, commercianti, musicisti e liutai; nonostante la città si trovasse in una posizione sociale e politica difficile (nel dicembre del 1746 si era liberata dell’occupazione austro-piemontese con la rivolta popolare accesa dal giovane ‘Balilla’) ed una situazione economica e finanziaria di stagnazione, la musica in città viveva una stagione dinamica e brillante che generò un diffuso aumento della richiesta di strumenti musicali.

Alla Maddalena tennero bottega tutti i liutai genovesi di quel periodo oggi conosciuti quali Filippo Cordano, Bernardo Calcagno, Davide Pizzorno e la famiglia Castello, che vi fu residente per diverse generazioni; dal capostipite Cristoforo, attivo già nel Seicento, fino ad Antonio morto nel 1834, troviamo documentata nei registri parrocchiali una interrotta attività dei membri della famiglia rivolta alla musica: furono musici e, più genericamente, fabbricanti di chitarre, o di ‘chitarriglia’, termine col quale si indicava allora in città ogni sorta di strumento a corda.

Paolo Castello, del quale ignoriamo la data di nascita, fu certamente il più prolifico tra i suoi familiari e la sua produzione ha avuto grande sviluppo e fortuna tra gli anni settanta e ottanta del Settecento: in questo copioso catalogo di violini, viole e violoncelli, notiamo una certa differenza nella qualità del lavoro e del materiale impiegato che contraddistingue la diversa committenza, divisa probabilmente tra dilettanti dell’alta borghesia e musicisti professionisti, dotati di minori sostanze da investire nello strumento.

A questo tipo di pubblico sembra essere stato destinato lo strumento qui in esame, il quale, miracolosamente, ha attraversato il tempo senza che alcun accidente potesse cambiarne né l’aspetto, né la funzione: questa piccola viola, costruita nel 1778, completa dell’astuccio e dell’arco di origine, è oggi una testimonianza rarissima e preziosa non solo del lavoro dell’autore e del suo modo di confezionare lo strumento per la vendita, ma anche degli aspetti organologici costruttivi che si possono ancora oggi ammirare grazie alla purezza dello stato conservativo dello strumento.

La viola si presenta chiusa in un astuccio su misura, costruito in legno di abete e sagomato a forma di ‘cassa da morto’, rivestito al suo interno da una tela di cotone dal colore paglierino che, al momento della consegna, doveva apparire bianco candido; la finitura esterna della custodia segue la moda genovese dell’epoca di decorare le porte e i braghettoni delle case borghesi a foggia di finto marmo dal colore grigio-verde;

la cassetta fu dipinta con colore ad acqua e terminata con vernice ad alcol a base di gommalacca.

Meno affascinante ma comunque interessante l’arco: tagliato in legno di pero, fornito di un bottone in ebano, di un nasetto in bosso e di una semplice placca in ebano sulla testa, è testimone comunque raro di arco italiano settecentesco.

Lo strumento, che ancora porta il manico e la tastiera d’origine, ha perso solamente la cordiera e il ponticello e anche i piroli e il bottone, torniti in legno di giuggiolo, sono autografi dell’autore.

La viola fu costruita con una forma interna e il procedimento costruttivo generale che si può dedurre dalle tracce lasciate all’interno, è quello tipico italiano, ancora in uso nella seconda metà del Settecento, basato sull’inchiodatura del manico.

La forma interna usata da Castello portava, contrariamente a quella cremonese, scassi inclinati per gli zocchetti centrali: tracce della forma sono rilevabili all’interno sulla fascia all’unione del tassello dove, sgocciolando leggermente, la colla ne ha delineato il contorno; il legno usato per gli zocchetti superiori ed inferiori è un pino dalla fibra forte, sono finiti a spacco e frettolosamente raccordati con una sgorbia, mentre quelli centrali sono in tiglio, legno locale tipico dell’Appennino: due chiodi di considerevoli dimensioni assicurano il manico al corpo delle fasce e, date le tracce lasciate, si può intuire che l’azione del martello sia stata particolarmente energica. Sull’interno delle fasce si vedono segni di pialla dentata e bruciature causate da un ferro dalla forma piuttosto piatta, mentre le controfasce in legno di faggio, lavorate a sgorbia, si appoggiano sui tasselli centrali.

I piani armonici hanno bombature alte ma ben raccordate verso il bordo e la tavola, finita a rasiera, mostra la fibra bene in evidenza; gli spessori sono consistenti, circa 3.5/3.8mm in centro per digradare appena sui corpi superiore ed inferiore dove si attestano a circa 2.8mm; la catena interna, anch’essa originale, fu tratta dallo stesso blocco d’abete del piano armonico ed è piuttosto bassa (7.8 il punto massimo sul centro geometrico), ben lavorata e montata con una certa inclinazione rispetto all’asse dello strumento.

Disegnate secondo ispirazione personale, le effe di risonanza sono tagliate con grande sicurezza a coltello, portano tacche ampie, le palette sono solo lievemente sgusciate a rasiera e gli occhi superiori gentilmente smussati. I bordi, ben proporzionati e arrotondati, sono lavorati con cura e il filetto, composto da strisce di faggio il cui ‘nero’ è stato tinto con una soluzione dal colore marronastro, sono stati collocati piuttosto vicini al bordo e conferiscono un aspetto risoluto e tuttavia gentile all’estetica generale del contorno.

L’elemento più rappresentativo dello stile semplice e diretto di Castello è certamente la chiocciola, contraddistinta da un cavigliere che va a stringere nella parte superiore della cassetta, dai segni di lavorazione della sgorbia lasciati nelle volute e dallo smusso tagliato a scalpello piuttosto che limato; la tastiera, forse anch’essa in tiglio come le controfasce, è stata lastronata con un foglio di Jacaranda, legno brasiliano facilmente reperibile a Genova, allora ampiamente usato nella lavorazione di mobili intarsiati.

La vernice della viola segna il cambiamento, allora in atto in quasi tutt’Italia, che si apprestava nella finitura degli strumenti ad arco: le vernici ad olio usate tradizionalmente nella nostra liuteria, nella seconda metà inoltrata del Settecento iniziano ad essere abbandonate, causa la loro complessità di stesura e il lungo tempo d’essiccazione necessario, fattori contrari all’economicità di utilizzo. Così come fino a pochi anni prima Paolo Castello ancora usava una vernice ad olio di pasta densa e colore intenso, qui ormai ha optato per le nuove ricette ad alcol, più veloci da stendere, che gli consentivano una finitura non solo più veloce ma anche più facile e precisa.

Le prestazioni acustiche della viola lasciano decisamente sorpresi: ad onta della sua piccola dimensione (382mm la lunghezza del fondo), delle bombature e degli spessori consistenti, di una catena che con la sua consistenza minuta si oppone ai moderni criteri, questa piccola viola stupisce per la densità e la tenuta del suono, per il timbro  ricco e dorato e per una sorprendente capacità di essere sempre ‘a fuoco’.

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