“Mia viola di Giambattista Guadagnini migliore 1773, fondo giunto con poca vena, coperchio intiero bello le effe con la mandola riccio grosso le effe belle”1.
Quando nel Giugno del 1816 il Conte Ignazio Alessandro Cozio di Salabue compilò di sua mano un dettagliato inventario della sua collezione di strumenti musicali, così descrisse la viola contralto che possedeva da più di quarant’anni e di cui ancora andava fiero. Nell’inventario segue una minuziosa descrizione delle misure dalla viola e degli altri strumenti che, a quel punto della vita, aveva deciso di alienare definitivamente, a dimostrazione di una passione ormai spenta. Il destinatario del gruppo completo di strumenti del Guadagnini fu il banchiere milanese Carlo Carli, talentuoso violinista dilettante, amico del Conte (e di Niccolò Paganini), il quale si offrì di tenere in conto vendita viole, violini e violoncelli presso la sua abitazione in Milano. La viola, pressoché intatta nelle sue condizioni d’origine, faceva parte della prima serie di strumenti, sei violini e due viole, che il giovane Conte acquistò dal Guadagnini, prima di assumerlo alle sue dipendenze tramite il noto contratto firmato a Torino il 28 Dicembre del 1773. Fu questo un anno particolare per la città, segnato dal lungo periodo di lutto imposto per la morte del Re Carlo Emanuele III di Savoia, durante il quale ogni attività musicale e teatrale venne sospesa; otto strumenti erano una parte significativa della produzione annuale del liutaio e la loro vendita importante per il sostentamento della numerosa famiglia, giunta in città proveniente da Parma due anni prima. Torino nella seconda metà del Settecento stava vivendo una notevole espansione e il rinnovo urbanistico andava modificando definitivamente l’aspetto del centro cittadino con le demolizioni degli edifici medievali, per dare spazio ad un’architettura aggiornata al gusto e alla modernità europea, consona all’ambizione della casa regnante. A seguito dei successi riportati durante le Guerre di Successione, Carlo Emanuele III era riuscito a consolidare il territorio e la popolazione della città, di circa sessantamila anime nel 1741, aveva raggiunto la quota di novantamila. L’attività musicale era intensa e di alto livello grazie non solo alla cappella Reale, attiva già nel Rinascimento, e ai teatri principali quali il Regio ed il Carignano, ma anche grazie ad un fitto tessuto formato da appassionati e dilettanti che alimentavano un’interessante porzione di mercato. Risulta probabile che il Guadagnini sia stato anche attratto dalle strette relazioni tra musicisti torinesi e francesi e di conseguenza dal mercato d’oltralpe; inoltre, a parte pochi costruttori di chitarre e mandolini, in città non vi erano più liutai dediti alla costruzione di strumenti ad arco. Possiamo anche immaginare che al suo arrivo a Torino Giambattista avesse tentato di avvicinare Gaetano Pugnani, primo violino di spalla al Teatro Regio il quale, appena rientrato in città e forte della sua fama internazionale, era uomo di potere e attore importante nel mercato del violino. Comunque siano andate le cose (forse non così bene come avrebbe immaginato o sperato l’ormai anziano liutaio) alla fine del 1773, tramite la mediazione di Giovanni Michele Anselmi, il Guadagnini si mise alle dipendenze del conte, garantendo un numero di strumenti costruiti ogni anno in cambio di uno stipendio fisso: una soluzione certamente non ideale per un uomo così dinamico ma che tuttavia garantiva alla sua numerosa famiglia di uscire

1 La mia migliore viola di Giambattista Guadagnini del 1773; fondo giunto (in due pezzi) con poca vena, la bella tavola in un unico pezzo, le effe con la mandorla (con i fori ovali), il grosso ricciolo, le belle effe

da uno stato di accertata indigenza. Strano destino quello degli strumenti di Guadagnini costruiti per il Cozio se, come apprendiamo, dopo così lungo tempo giacevano ancora invenduti. Nell’inventario compilato alla morte del conte nel 1841, la maggior parte degli oltre cinquanta strumenti, incluse le due viole, era ancora allocata presso l’abitazione della famiglia Carli a Milano. Secondo quanto si apprende dagli inventari, in circa sessant’anni solo un paio di violini e un violoncello vennero venduti; tutti gli altri strumenti si trovavano ancora così come li aveva terminati il liutaio, o addirittura non terminati poichè alcuni di loro, tra cui un violoncello, non furono neppure verniciati o montati: vennero a portati a termine solo nel 1816 da Carlo Mantegazza che provvide alla verniciatura di un violoncello e alla modernizzazione di alcuni manici di violini, affinché fossero più facilmente vendibili. La vendita comunque non andò a buon fine dato che non ebbero successo nell’intento né il Conte Cozio né il suo procuratore Carli che ben conosceva il mercato di appassionati e collezionisti: i violini, le viole e i violoncelli del Giambattista risultavano pressoché invendibili e nessuno ne era interessato. Fu così che morti sia il Conte che il Carli, dopo lunga ed estenuante trattativa, il commerciante Luigi Tarisio riuscì ad acquistare per un prezzo da sbarazzo sei violini; la collezione intera era passata alla figlia del Conte Matilde e quindi da lei al cugino, il Marchese Rolando della Valle che nella seconda metà dell’Ottocento vendette, disperdendola, la collezione. Della viola si perse ogni traccia: riapparve negli stati uniti all’inizio del Novecento e dopo vari passaggi venne venduta da Lyon and Healey con il nome di “Sovereign” (la Sovrana): la provenienza dalla collezione del nobiluomo piemontese era ormai perduta; dopo altri passaggi di proprietà essa è tornata nelle colline del Monferrato, accasata nella collezione di un appassionato connoisseur.

Per la costruzione della viola il Guadagnini volle provvedersi di un nuovo modello e di una nuova forma: il disegno ci appare piuttosto differente da quello delle viole costruite nel periodo di Parma e nonostante riveli la consapevolezza del contralto stradivariano, da esso se ne distacca rivelandoci tutta la capacità innovativa del suo autore. Persino nella costruzione della forma di legno si riscontrano le evidenze di questa discontinuità: come ha notato Barthelemy Garnier che ha curato il restauro della viola, il Guadagnini già da alcuni anni aveva abbandonato la tradizionale forma cremonese dagli scassi ortogonali rispetto all’asse longitudinale, in favore di una dagli scassi angolati che possiamo definire come forma “italiana”. Sebbene le ragioni di questo cambiamento non siano del tutto chiare, possiamo comunque ipotizzare, conoscendo la personalità pragmatica del Guadagnini, che questa nuova forma gli consentisse di accelerare ulteriormente la lavorazione della struttura delle fasce. Garnier ha notato, grazie anche alla particolare purezza dell’interno dello strumento che ad oggi risulta incorrotto, la grande velocità di esecuzione, che si nota soprattutto nella lavorazione dei tasselli, finiti con pochi colpi di sgorbia, e nell’inserzione delle controfasce centrali nei tasselli, che viene risolta con netti ed incuranti tagli di coltello; il fatto che sul piano interno del fondo non appaiano segni di attrezzi conferma che la lavorazione delle fasce avveniva prima del loro incollaggio su di esso. La tavola armonica venne ricavata da un unico pezzo di abete, cosa non frequente per il Guadagnini e che si riscontra in alcuni strumenti fatti per il conte: un abete non di grande qualità in questo caso, dalla vena forte e appena ritorta, ma dalle notevoli qualità acustiche. Anche per il fondo la scelta fu improntata al risparmio, il pezzo di acero usato ha solo leggere le marezzature e alcune macchie piuttosto marcate nella parte inferiore.

Nonostante il materiale non di prima scelta, la lavorazione appare impeccabile, attenta e sempre felicemente risolta; alte le bombature (21 il tavola e 19.5 il fondo) con curve che su entrambi i piani rimangono piene sino al filetto. Nelle microtomografie elaborate presso Elettra Sincrotrone ~ Trieste da Diego Dreossi e Nicola Sodini, è evidente la cura dedicata alla scultura dei piani e quanta attenzione mostri la spessorazione dei piani armonici, giunti intatti fino a noi. La tavola risulta solida nella zona delle effe dove si porta sino a quasi 4 millimetri per degradare sensibilmente lungo la giunta; nel fondo il punto di spessore maggiore nel centro è di 4 millimetri e scende significativamente nei polmoni superiori ed inferiori fino a 2. I bordi sono una felice sintesi di forza ed eleganza: il filetto è consistente, ricavato da strisce di legno di noce, facile a piegarsi, inserito a circa 4.5 millimetri dal bordo, con punte prive di estensioni; lungo il canale si notano i segni del coltello, testimoni della velocità di esecuzione. Nell’osservare il piano armonico, spostandosi dalle punte ai fori armonici, l’occhio può risultare ingannato dalle proporzioni della viola poiché non si ha la sensazione di ammirare una viola di piccolo formato: le punte generose, l’alta bombatura e le effe, piazzate piuttosto distanti tra loro, suggeriscono una sensazione di generale forza architettonica e rivelano l’abilità del Guadagnini nel progettare questo strumento, la cui sonorità è sempre piena e particolarmente a fuoco, nel tentativo (riuscito) di portare al massimo le potenzialità di una viola di piccole dimensioni. Occorre ricordare che dalla seconda metà del Settecento il formato di viola contralto divenne il prediletto dai musicisti: a seguito dell’aumento dell’attività professionale nei teatri, e in considerazione del fatto che il lavoro veniva pagato a “gettone”, la parte della viola era coperta più frequentemente da violinisti i quali preferivano uno strumento agile (e preferibilmente economico) per poter affrontare il lavoro. Parimenti il ruolo della viola nelle composizioni si andava raffinando giungendo a maggiore difficoltà tecnica, per la quale un formato di dimensione minore risultava ideale.

Il ricciolo è delicato nelle proporzioni, sinuoso nel profilo: la linea delle ganasce e del cavigliere stradivariani sono definitivamente abbandonati, il profilo viene reso agile come quello di un violino. Nella scultura notiamo l’intero repertorio di Giambattista: i punti di tracciatura sui giri profondi sino al secondo giro (una seconda tracciatura fu quindi necessaria), tracce di sgorbia, sul retro il bottone ovalizzato che si connette non senza qualche indecisione alla linea dorsale. Infine la vernice: non ancora dotata del pigmento rosso bruno che renderà celebri gli strumenti torinesi del Giambattista, risulta tuttavia morbida, trasparente nella sua semplice composizione e sobriamente elegante nel rivestire lo strumento.

Misure del fondo: Lunghezza 400 – Larghezza superiore 185.9 – centrale 130.2 – inferiore 232 – Diapason 216 Fotografie: Yuma Murata, Alberto Giordano

Ringraziamenti: Gianni Accornero, Claudio Amighetti, Eric Blot, Barthelemy Garnier, Claire Givens, Roberto Iovino, Duane Rosengard, Andrea Zanrè; The Strad magazine, Elettra Sincrotrone Trieste, Biblioteca Statale Cremona.

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